Regole vincolanti per il calcolo delle perdite in caso di fusione
Recensione di Roberto Castegnaro Pubblicata il 31/03/2023
Autore: Testo di Legge Circ. Risoluzione Fonte: Agenzia Entrate del 31/03/2023
Sulla normativa antielusiva per il riporto delle perdite fiscali nell’ambito delle fusioni, chiarimenti sulle modalità applicative del test di vitalità e del patrimonio netto.
La Cassazione, con la sentenza del 16 gennaio 2023 n. 1035, è intervenuta sulla normativa antielusiva per il riporto delle perdite fiscali nell’ambito delle fusioni, fornendo chiarimenti sulle modalità applicative del test di vitalità e del patrimonio netto.
Preliminarmente, i giudici di ultima istanza ricordano la ratio della norma antielusiva di cui all’articolo 172, comma 7, del Dpr n. 917/1986 (Tuir).
La fusione è un evento fiscalmente neutro ai fini reddituali, che incide sull’organizzazione patrimoniale dei soggetti d’imposta, e non sulla sua gestione. Ai fini fiscali, dunque, la fusione non costituisce un atto realizzativo di plusvalenze o di minusvalenze, né può derivarne un reddito imponibile o perdite deducibili. La neutralità fiscale della fusione giustifica la previsione secondo cui, in virtù del principio di successione a titolo universale, la società risultante dalla fusione o incorporante subentra, dalla data di efficacia dell’operazione, negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi.
Tuttavia, la possibilità che si verifichino “fenomeni di rincorsa e quasi di incetta di società in perdita”, ha indotto il legislatore a porre un argine al pericolo di diffusione di operazioni di fusione con società “decotte”, limitando il riporto delle perdite nella nuova società.
L’esigenza è quella di evitare fenomeni elusivi di commercio di perdite fiscali e la fusione di “scatole vuote”, con perdite da attribuire all’incorporante, ma ormai prive di concreta operatività, cosiddette “bare fiscali”, utilizzabili al solo scopo di abbattere gli utili tassabili.
Dall’articolo 172, comma 7, Tuir, applicabile ratione temporis, si evince che il riporto delle perdite pregresse da parte di società incorporate (o fuse) è condizionato alla verifica che:
- nell’esercizio anteriore alla delibera di fusione risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente e relativi contributi superiore al 40% rispetto alla media dei due periodi di imposta immediatamente precedenti
- le perdite conseguite dalle società partecipanti alla fusione siano inferiori e, comunque, riportabili nel limite del patrimonio netto delle stesse, senza tener conto dei versamenti effettuati dai soci nei ventiquattro mesi precedenti la situazione patrimoniale di riferimento.
La sentenza in commento si sofferma su entrambe le condizioni.
Quanto alla verifica della vitalità (a), nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha disconosciuto i requisiti di validità della società incorporata con riguardo all’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro e relativi contributi, inferiori al 40% di quanto risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori alla fusione.
La società, dal canto suo, sosteneva che l’assenza di costi del personale non può escludere, da sola, la vitalità aziendale e la sua operatività, specificando che l’assenza di costi per il personale nel bilancio dell’incorporata, era dovuta alla scelta aziendale di esternalizzare l’attività amministrativa e contabile, come da fatture prodotte in giudizio.
Secondo la Corte di cassazione, la norma antielusiva è chiara: l’articolo 172 fa espresso richiamo alle spese per prestazioni di lavoro subordinato e “relativi” contributi di cui all’articolo 2425 del codice civile.
L’articolo 2425 cc identifica tra i costi della produzione i costi del personale, ossia salari e stipendi (B9a), e gli oneri sociali (B9b). Il richiamo a tale articolo non permette di equiparare i costi per il personale subordinato e i costi per il personale esternalizzato, di cui nemmeno si distinguerebbe la spesa per i contributi.
Ancora, quanto al “test del patrimonio netto” (b), la norma permette la compensabilità delle perdite nei limiti dell’ammontare dei rispettivi patrimoni netti risultanti dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2501-quater del codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti nei ventiquattro anteriori alla data cui si riferisce la stessa.
La società, nel raffronto tra le perdite e il patrimonio netto, aveva assunto a riferimento quello risultante dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2501-quater cc, di ammontare inferiore all’ultimo bilancio. L’Amministrazione finanziaria, diversamente, ha ritenuto che a essere inferiore fosse l’ultimo bilancio.
La ricorrente aveva, infatti, effettuato il raffronto tra le due situazioni patrimoniali, escludendo versamenti e conferimenti degli ultimi ventiquattro mesi solo dopo aver individuato il patrimonio netto inferiore; l’Agenzia delle entrate, invece, ha ritenuto che la decurtazione di versamenti o conferimenti dovesse essere operata a monte, prima del raffronto tra le due situazioni patrimoniali.
La Cassazione ritiene corretta l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria. L’estensore precisa che “scomporre i due elementi di cui si compone la situazione patrimoniale richiamata nell’art. 172 cit. – stato patrimoniale al netto di determinati risultati positivi – ne implicherebbe una lettura irrazionale...”
È, dunque, affermato il seguente principio di diritto “In tema di reddito imponibile di società partecipanti ad una operazione di fusione, al fine della deducibilità delle perdite, ai sensi dell’art. 172, comma 7, TUIR, il c.d. patrimonio netto inferiore va individuato tra quello dell’ultimo bilancio di esercizio e quello risultante dalla situazione patrimoniale aggiornata, previa rettifica in diminuzione dei conferimenti e versamenti eventualmente eseguiti nel biennio precedente alla data cui detto patrimonio si riferisce”.
Infine, è affermata la compatibilità dell’articolo 172, comma 7, Tuir, con il diritto comunitario che vieta la limitazione del riporto delle perdite se la fusione non risulta preordinata al perseguimento di finalità elusive fiscali.
A tal proposito, la Corte suprema, non condividendo le osservazioni della società, afferma che “in tema di redditi imponibile delle società che partecipano ad una operazione di fusione, la disciplina contenuta nell’art. 172, comma 7, del d.P.R. TUIR, posta a tutela dal rischio di operazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi esclusivamente o prevalentemente elusivi, costituisce una regola circolare che, mediante l’identificazione di criteri legali presuntivi ma specificamente predeterminati, assicura all’operatore economico la conoscenza degli effetti della fusione sotto il profilo fiscale”.
Se è vero che la disciplina presenta delle perplessità (ad esempio quanto all’indice di vitalità relativo alle spese per il personale in caso di holding) i giudici sottolineano che quando la disciplina antielusiva presenta dei limiti nel caso concreto, sia con riguardo all’effettiva vitalità della società, sia riguardo alle finalità abusive dell’operazione straordinaria, tali limiti possono essere superati con il ricorso all’istanza di interpello, disciplinata dall’articolo 11, comma 2, della legge n. 212/2000, con cui il contribuente può chiedere all’Amministrazione la disapplicazione della norma, dimostrando le finalità non elusive delle operazioni, sia per superare il test di vitalità sia per neutralizzare le limitazioni quantitative previste per il riporto delle perdite (circolare n. 9/E/2020).
Pertanto, la circolarità della disciplina antielusiva di cui all’articolo 172, comma 7, non è assoluta ed è pienamente compatibile con i principi eurounitari.
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